giovedì 5 novembre 2009

Francesco d'Assisi e la quinta crociata

Francesco era ben cosciente del pericolo rappresentato dall'espansionismo islamico tanto che, ancora giovanissimo, nel 1204 o nella primavera del 1205 decise di recarsi in Puglia per combattere fra le fila di Gualtiero di Brienne (1Cel 4: FF 325). Giunto a Spoleto un'esperienza interiore straordinaria sconvolse i suoi progetti, spingendolo a tornare ad Assisi, dove iniziò un cammino di conversione che lo trasformò da aspirante cavaliere e uomo d'armi in uomo evangelico, autentico portatore di pace. Una pace vera però, sofferta, fatta di innumerevoli gesti concreti di riconciliazione e di giustizia, non un pacifismo velleitario e ideologico. Furono numerosi nella sua vita i frutti di pace e un episodio, in particolare, li riassume idealmente tutti: quello del lupo di Gubbio (Fior. XXI: FF 1852). Il momento culminante del famoso fioretto vede Francesco indurre il popolo e il lupo a stringere un patto di pace: il lupo depone la sua ferocia e i cittadini si impegnano a nutrirlo ogni giorno. E questo dura per due anni, finché l'animale muore di vecchiaia portando con sé il ricordo di Francesco, che egli risvegliava con la sua ormai mite presenza. Alcuni storici ipotizzano che il lupo in questione fosse in realtà un pericoloso brigante della zona aiutato dal santo a reinserirsi nel corpo sociale. Quale che sia la realtà storica resta il valore indiscusso di una vita spesa per il ristabilimento della pace individuale e sociale: una pace garantita dalla fede e da un rinnovato senso di giustizia.
Ma qual era l’atteggiamento di Francesco di Assisi di fronte al problema posto all’epoca dal mondo islamico in continua e violenta espansione? Qual era il suo atteggiamento di fronte alle crociate? Ebbene proprio la Quinta crociata si svolse in un arco di tempo dal 1217 al 1221 ed ebbe come primo obiettivo la conquista del porto egiziano di Damietta. Il piano strategico, piuttosto ardito, prevedeva un attacco all’Egitto e la presa del Cairo per assicurarsi il controllo della penisola del Sinai. Questo piano tuttavia non poté essere portato a compimento a causa del mancato invio dei rinforzi promessi dall’imperatore Federico II dopo la presa di Damietta, che quindi verrà nuovamente persa nel 1221. Il 24 giugno 1219 le cronache affermano che Francesco si imbarcò ad Ancona con dodici compagni per raggiungere Acri e poi Damietta, dove l’esercito crociato si schierava contro l’esercito mussulmano. Francesco visitò il campo crociato ma a quanto ci risulta restò amareggiato dalle faziosità e dalle divisioni interne: predisse cosí una disfatta che la realtà non tardò a confermare (29 agosto 1219; cfr. FF 617). Non dovevano certo essere rilievi inconsistenti e anche secoli dopo l’ambasciatore imperiale a Costantinopoli, verso il 1554, rilevava:
«Là [presso i turchi] troviamo le risorse di un potente impero: forze intatte, abitudine alla vittoria, resistenza alla fatica, unità, disciplina, frugalità, vigilanza. Qui, povertà pubblica, lusso privato, fiacchezza, morale a pezzi, scarsa resistenza e preparazione; i soldati sono insubordinati, gli ufficiali corrotti; vigono il disprezzo per la disciplina, la sregolatezza e l'imprudenza; ubriachezza e condotta dissoluta sono generalizzate, e, quel che è peggio, il nemico si è abituato alla vittoria e noi alla sconfitta. Possono esserci dubbi sui risultati? L'unico punto a nostro favore è la Persia; perché il nemico, benché impaziente di attaccare, deve tuttavia tener d'occhio questa minaccia alle sue spalle. Ma la Persia può solo rimandare il nostro destino; non può salvarci. Quando i turchi avranno regolato i conti con la Persia, ci salteranno alla gola, col sostegno di tutta la potenza dell'Oriente; quanto siamo impreparati a questo evento non oso nemmeno immaginarlo!» (The Turkish Letter of Ogier Ghislain de Busbecq, Imperial Ambassador at Costantinople 1554-1562, tradotto dal latino da Edward Seymour Forster, Oxford 1927, 112, riportato da LEWIS B., Il suicidio dell'Islam. In che cosa ha sbagliato la civiltà mediorientale, Milano 2002, 11).
È noto che Papa Onorio III non riconobbe la Quinta crociata come legittima. Proprio in attesa di quello scontro Francesco ottenne dal legato pontificio (il benedettino portoghese Pelagio Galvao, cardinale vescovo di Albano di cui si tratta in DONOVAN J. P., Pelagius and the fifth Crusade, Filadelfia 1950) di potersi recare, a suo rischio e pericolo, in visita al sultano Melek-el-Kamel. Francesco, accolto da questi con raffinata ospitalità, poté parlare del Vangelo ma non vedendo frutti di conversione poco dopo fece ritorno al campo cristiano. Il 5 novembre 1219 Damietta venne conquistata dai crociati. Anche in questa occasione Francesco espresse disapprovazione per gli eccessi compiuti e per la condotta delle truppe. Nel gennaio 1220 cinque frati inviati in Marocco vennero uccisi dai mussulmani: furono i primi martiri dell'Ordine francescano; primi di una lunga serie di vittime e di dialoghi infruttuosi. Prima di riflettere sui fatti appena esposti tuttavia sarà bene leggere una delle cronache piú interessanti dell'epoca. Si tratta della Chronique d'Ernoul et de Bernard le Trésorier (il testo tradotto in italiano è reperibile in FF 2231-2234).
Il testo originale della Chronique è in francese antico ed è riportato da GOLUBOVICH G., Biblioteca biobibliografica della Terra Santa e dell'Oriente francescano (d'ora in poi BBT), I, 10-13, a cui è bene rifarsi per avere notizie piú ampie. Ernoul, continuatore del lavoro dell'arcivescovo Guglielmo di Tiro, trascorse gran parte della sua vita in Oriente dove si era recato come scudiero di Baliano II d'Ibelin e fu pertanto un testimone oculare di parecchi avvenimenti tra la terza e la quinta crociata, che egli narrò nella sua Cronaca, giunta a noi attraverso la trascrizione di Bernardo il Tesoriere che sembra l'abbia scritta dal 1229 al 1231, benché secondo alcuni autori l'opera sia databile tra il 1227 e il 1229. Interessante, anche per la bibliografia, l'opera di RUNCIMAN S., A History of Crusades, II, London 1965, 477-478; idem, III, London 1965, 481-482.
La stessa sobrietà del racconto di Ernoul sembra possa escludere dubbi circa la veridicità del medesimo. Bisogna notare tuttavia che il testo originale che va dal 1184 al 1197 è andato perduto e se è giunto fino a noi lo dobbiamo ad una versione dell'Eraclito di Guglielmo di Tiro e all'opera dello stesso Bernardo il Tesoriere che nel 1231 ne riprese il testo e lo compendiò. Questo testo in francese antico venne poi pubblicato nel 1871 a Parigi da L. de Mas-Latrie. Quanto all'Eraclito succitato si tratta del volgarizzamento in francese della Historia rerum in partibus transmarinis gestarum scritta da Guglielmo di Tiro e delle sue continuazioni fino al 1291. La prima di tali continuazioni, quella in cui si trova la notizia su san Francesco, giunge fino al 1231.
In merito all'opera BERNARDI THESAURARII, Liber de Acquisitione Terrae Sanctae, in BBT, I, 13-14 si deve rilevare che il testo latino è dell'epitomatore fra' Francesco Pipino da Bologna, O.P. che narra i fatti dal 1195 al 1230. Pipino, che tradusse l'opera attorno al 1320, attribuisce esplicitamente il racconto dell'episodio a Bernardo il Tesoriere. Benché la trascrizione di Bernardo si collochi negli ultimi anni del decennio 1220-1230, la notizia che ci interessa appare ritrascritta nella forma originale: a garantircelo è proprio il fatto che Francesco vi appare ancora come uno sconosciuto, assimilabile a qualsiasi altro chierico, a differenza di quanto si vedrà a proposito della non molto piú tardiva testimonianza contenuta nella Storia di Eraclito. Una raccolta abbastanza completa delle testimonianze sull'episodio di Damietta si trova nella già citata opera di GOLUBOVICH G., BBT, I, 2-84. Per una diligente analisi delle fonti invece, nell'intento di scoprire il senso della ricerca del martirio da parte di san Francesco, vedasi OKTAVIAN VON RIEDEN, Das Leiden Christi im Leben des hl. Franziskus, in CF, XXX (1960), 365-370, dove si trova anche un'esauriente bibliografia. Interessante anche l'articolo di CROIZY-NAQUET C., Deux représentations de la troisième croisade: l'histoire de la guerre sainte et la Chronique d'Ernoul et de Bernard le Trésorier, in Cahiers de civilisation médiévale, 44 (2001), 313-327.

La «Chronique d'Ernoul et de Bernard le Trésorier»
«1. Ora vi dirò di due chierici che si trovavano nell'esercito a Damiata. Un giorno si recarono dal cardinal (legato), e gli manifestarono la loro intenzione di andare a predicare al Sultano; ma volevano fare questo con il suo beneplacito. Il cardinale rispose che, per conto suo, non avrebbe mai dato né licenza né comando in tale senso, perché non voleva concedere licenza che si recassero là dove sarebbero stati senz'altro uccisi. Lo sapeva bene lui, che se ci andavano, non ne sarebbero tornati mai piú. Ma essi risposero che, se ci andavano, lui non avrebbe avuto nessuna colpa, perché non era lui che li mandava, ma semplicemente permetteva che vi andassero. E tanto lo pregarono che il cardinale, constatando che avevano un proposito cosí fermo, disse loro: «Signori miei, io non conosco quello che voi avete in cuore e quali siano i vostri pensieri, se buoni o cattivi; ma se ci andate, guardate che i vostri cuori e i vostri pensieri siano sempre rivolti al Signore Iddio». Risposero che non volevano andare dal Sultano, se non per compiere un grande bene, che bramavano portare a compimento. Allora il cardinale disse che potevano pure andarci, se lo volevano, ma che non si pensasse da nessuno che era lui a inviarli.
2. Allora i due chierici attraversarono il campo cristiano, dirigendosi verso quello dei Saraceni. Quando le sentinelle del campo saraceno li scorsero che si avvicinavano, congetturarono che certo venivano o come portatori di qualche messaggio o perché avevano intenzione di rinnegare la loro fede. Si fecero incontro, li presero e li condussero dal Sultano. Introdotti alla presenza del Sultano, lo salutarono. Il Sultano rispose al saluto e poi domandò loro se intendevano farsi saraceni oppure portavano qualche messaggio. Essi risposero che giammai si sarebbero fatti musulmani, ma piuttosto erano venuti a lui portatori di un messaggio da parte del Signore Iddio, per la salvezza della sua anima. E proseguirono: «Se tu, sire, vorrai credere alle nostre parole, noi consegneremo la tua anima a Dio, perché ti diciamo in verità che se tu morrai in questa legge che ora professi, sarai perduto né mai Dio avrà la tua anima. Proprio per questo noi siamo venuti. Ma se ci darai ascolto e vorrai comprendere, noi ti mostreremo con argomenti irrefutabili, alla presenza dei piú saggi dottori del regno, se li vorrai convocare, che la vostra legge è falsa». Il Sultano rispose che egli aveva dignitari maggiori e minori della sua legge e gli incaricati del culto e non poteva neppure ascoltare quello che essi volevano dire, se non alla loro presenza. «Molto bene, - risposero i due chierici -. Mandali a chiamare, e se noi non riusciremo a dimostrare con solidi argomenti che è vero quanto asseriamo, che cioè la vostra legge è falsa, sempre che vogliano ascoltare e comprendere, ci faccia pure mozzare la testa». Il Sultano allora convocò nella sua tenda i dignitari e sapienti. E cosí si trovarono insieme alcuni dei maggiori dignitari e dei piú saggi del suo regno e i due chierici.
3. Quando furono radunati insieme, il Sultano espose il motivo per cui li aveva convocati ed ora erano qui alla sua presenza, quello che i due chierici gli avevano proposto e la ragione della loro venuta alla sua corte. Ma essi gli risposero: «Sire, tu sei la spada della legge: a te il dovere di custodirla e di difenderla. Noi ti comandiamo, da parte di Dio e di Maometto, che ci ha dato questa legge, di far subito decapitare costoro. Quanto a noi non ascolteremo mai quello che essi dicono. Ma anche te mettiamo sull'avviso di non ascoltarli, perché la legge proibisce di prestar orecchio ai predicatori di altra religione. Se poi c'è qualcuno che voglia predicare o parlare contro la nostra legge, questa stessa stabilisce che gli sia mozzata la testa. Per questo ti comandiamo, da parte di Dio e della legge, che tu faccia subito tagliar loro la testa, come è prescritto».
4. Detto questo, presero congedo e se ne andarono senza piú voler ascoltare nessuna parola. Rimasero soli il Sultano e i due chierici. Allora il Sultano disse loro: «Signori miei, mi hanno detto, da parte di Dio e della legge, che io devo farvi decapitare, perché cosí è prescritto. Ma io, per questa volta andrò contro la legge; non sia mai che io vi condanni a morte. Sarebbe una ricompensa malvagia fare morire voi, che avete voluto, coscientemente, affrontare la morte per salvare l'anima mia nelle mani del Signore Iddio». Poi il Sultano aggiunse che se essi volevano rimanere con lui, li avrebbe investiti di vaste terre e possedimenti. Ma essi risposero che non volevano punto rimanerci, dal momento che non li si voleva né sentire né ascoltare, e perciò sarebbero tornati nell'accampamento dei cristiani, se lui lo permetteva. Il Sultano rispose che volentieri li avrebbe fatti ricondurre sani e salvi nell'accampamento cristiano. Ma intanto fece portare oro, argento e drappi di seta in gran quantità, e li invitò a prenderne con libertà. Essi protestarono che non avrebbero preso nulla, dal momento che non potevano avere l'anima di lui per il Signore Iddio, poiché essi stimavano cosa assai piú preziosa donare a Dio la sua anima, che il possesso di qualsiasi tesoro. Sarebbe bastato che desse loro qualcosa da mangiare, e poi se ne sarebbero andati, poiché qui non c'era piú nulla da fare per loro. Il Sultano offrí loro un abbondante pasto. Finito essi si congedarono da lui, che li fece scortare sani e salvi fino all'accampamento dei cristiani» (FF 2231-2234).
Quello che colpisce in questo racconto è l’atteggiamento umile, deciso e sincero dei due chierici. Sono ben consci di portare un messaggio di verità ma questo non li rende sprezzanti. Al Legato chiedono il permesso di avviare un confronto rispettoso ma franco e aperto, non tentano di accattivarsi la benevolenza del sultano. Essi si manifestano come uomini di dialogo ma anche come uomini concreti; per loro l’incontro deve portare ad una determinazione; è uno strumento di comunione e non una tattica d’elezione, fine a se stessa, per una politica irresoluta. Forse è per questo che di fronte ad un rifiuto netto non insistono e preferiscono lasciare il campo mussulmano. Colpisce anche l’atteggiamento del sultano, certo piú aperto e disponibile dei suoi ministri di culto, ma incapace di uscire piú di tanto dagli schemi impostigli. In ogni caso i due chierici rifiutano nettamente la lusinga delle ricchezze ed evitano accuratamente che essa prevalga sul messaggio di fede di cui vogliono essere portatori autentici. Chiedono con semplicità solo un po’ di cibo per poter poi riprendere il cammino verso il campo crociato. La cronaca non riporta niente sul loro stato d’animo subito dopo l’incontro. Non è difficile tuttavia comprenderne il dolore per un’occasione di pace perduta. Tale doveva essere appunto lo stato d’animo di Francesco il quale non gli impedirà di condannare la violenza che purtroppo si manifesterà piú tardi nella battaglia di Damietta tanto feroce quanto inutile. Francesco però non è un pacifista a senso unico: non contesta aprioristicamente la crociata, ne contesta semmai gli eccessi, le violenze inutili, come a dire che il cavaliere cristiano anche nella tristezza di una guerra inevitabile deve sempre distinguersi per senso di umanità e di giustizia. Lui che aspirava a diventare un vero cavaliere, lui che soffrí nelle carceri di Perugia dopo la battaglia vissuta con le milizie di Assisi (FF 584) non concepiva l’uso gratuito e spregiudicato della forza senza misura e senza regole.
Francesco con un gesto insolito e ardito tenta cosí di capovolgere gli schemi secolari basati sulla guerra santa. Ernoul sembra voler sottolineare che il gesto dei "due chierici" è una sfida agli atteggiamenti mentali che stavano alla base dei rapporti tra il mondo cristiano e quello mussulmano dell’epoca. Una sfida che Francesco intende portare nell’ambito della comunione ecclesiale; tentativo in parte vanificato dalle resistenze del cardinale legato che non vuole assumersi la responsabilità di ufficializzare il gesto con il proprio consenso. Le plausibili diffidenze della controparte mussulmana, che si concretizzano nel proposito esplicito di eliminare i due chierici, sono personificate nei rappresentanti ufficiali della fede islamica. Tra i due mondi sembra che non vi sia possibilità d’intesa e su questo giudizio sono concordi anche le testimonianze di Giacomo da Vitry (FF 2210-2213) e Bernardo il Tesoriere (FF 2231-2234) nel testo riproposto quasi un secolo piú tardi dal domenicano Francesco Pipino da Bologna che riecheggia da vicino il racconto di Ernoul.
Secondo alcuni autori (vedasi l’interessante contributo di BASETTI-SANI G., voce Saraceni, in AA. VV., Dizionario Francescano, Assisi 1983, col. 1647-1672) l’idea di un’intesa impossibile e quindi la conseguente necessità di affidarsi alle armi verrà in seguito fatta propria dai francescani stessi fino al punto da attribuire a Francesco la giustificazione della crociata. A riprova di ciò essi adducono per esempio il testo di un ignoto scrittore francescano del secolo XIV che attribuisce a frate Illuminato da Rieti, compagno d’avventura del Santo, la testimonianza che Francesco davanti al sultano avrebbe apertamente giustificato la crociata in risposta ad un’obiezione in cui il sultano si appellava alla legge evangelica. La domanda che sorge inevitabile è se ciò sia vero o se non si voglia impedire a Francesco di dire ciò che noi oggi non vorremmo dicesse. L’argomento addotto da questi autori alla luce stessa dei testi citati come piú equilibrati e autentici non elimina del tutto i dubbi. L’autore della Storia di Eraclito sottolinea il disgusto di Francesco per la condotta dei crociati. Il cronista sente il bisogno di dare una spiegazione morale circa l’esito catastrofico della quinta crociata e la trova nel malcostume introdottosi nel campo cristiano. Egli si avvale della presenza di Francesco per fare tale sottolineatura, essendo egli ormai un uomo autorevole, un personaggio noto, in grado di avallare una simile tesi. L’impressione che alcuni riportano insomma è che i cronisti, ciascuno a suo modo, interpretino i fatti in maniera tale da renderli accettabili per gli uomini dell’epoca. Sospetti legittimi, in parte anche scontati, la questione è se siano tali da rendere credibile uno stravolgimento cosí profondo del pensiero di Francesco. Perché non accettare piú semplicemente invece la tesi del realismo e della radicalità evangelica di Francesco?
Fra i testi sopra citati, c'è n'è uno che vale pena di esaminare. Si tratta appunto del documento noto come Verba fratris Illuminati socii b. Francisci ad partes Orientis et in conspectu Soldani Aegypti (tratto dal codice Vat. Ottob. Lat. n. 552), in BBT, I, 36-37. Al riguardo si può vedere anche il testo di OLIGER L. Liber exemplorum, op. cit. nn. 98-99, 250-251. Ecco il testo, reperibile nella traduzione italiana anche in FF 2690-2691:
«1. Diceva il ministro generale (san Bonaventura), che frate Illuminato, già compagno di san Francesco nella sua missione dal sultano d'Egitto, era solito narrare questi episodi. Mentre Francesco era alla corte, il sultano volle mettere alla prova la fede e la devozione che egli mostrava d'avere verso il Signore nostro crocifisso. Un giorno fece stendere nella sala delle udienze uno splendido tappeto, decorato per intero con un motivo geometrico a forma di croce, e poi disse ai presenti: «Si chiami ora quell'uomo, che sembra essere un cristiano autentico; se per venire fino a me calpesterà con i suoi piedi questi segni di croce intessuti nel tappeto, l'accuseremo di fare ingiustizia al suo Signore; se invece si rifiuta di venire, gli domanderò perché commette questa scortesia di non venire fino a me». Chiamato, Francesco, che era pieno di Dio e da questa pienezza era bene istruito su quanto doveva fare e su quanto doveva dire, andò dritto dal sultano. Quegli, ritenendo d'aver motivo sufficiente per rimproverare l'uomo di Dio perché aveva fatto ingiuria al suo Signore Gesú Cristo, gli disse: «Voi cristiani adorate la croce, come segno speciale del vostro Dio; perché dunque non hai avuto timore a calpestare questi segni della croce disegnati sul tappeto»? Rispose il beato Francesco: «Dovete sapere che assieme al Signore nostro furono crocifissi anche due ladroni. Noi possediamo la vera croce del Signore e Salvatore nostro Gesú Cristo, e questa noi l'adoriamo e la circondiamo della piú profonda devozione. Ora, mentre questa santa e vera croce del Signore fu consegnata a noi, a voi invece sono state lasciate le croci dei due ladroni. Ecco perché non ho avuto paura di camminare sui segni della croce dei ladroni. Tra voi e per voi non c'è nulla della santa croce».
2. Il sultano gli sottopose anche un'altra questione: «Il vostro Signore insegna nei Vangeli che voi non dovete rendere male per male, e non dovete rifiutare neppure il mantello a chi vi vuol togliere la tonaca, ecc. Quanto piú voi cristiani non dovreste invadere le nostre terre, ecc.». Rispose il beato Francesco: «Mi sembra che voi non abbiate letto tutto il Vangelo. Altrove, infatti, è detto: Se il tuo occhio ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo lontano da te (Mt 5,25). E con questo ha voluto insegnarci che se anche un uomo ci fosse amico o parente, o perfino fosse a noi caro come la pupilla dell'occhio, dovremmo essere disposti a separarlo, ad allontanarlo, a sradicarlo da noi, se tenta di allontanarci dalla fede e dall'amore del nostro Dio. Proprio per questo, i cristiani agiscono secondo giustizia quando invadono le vostre terre e vi combattono, perché voi bestemmiate il nome di Cristo e vi adoperate ad allontanare dalla religione di lui quanti piú uomini potete. Se invece voi voleste conoscere, confessare e adorare il Creatore e Redentore del mondo, vi amerebbero come se stessi». Tutti gli astanti furono presi da ammirazione per le risposte di lui».

Circa la legittimità della difesa
Nel testo appena esposto balza immediatamente all'occhio un nuovo elemento: la plausibilità, in linea di principio, delle campagne crociate. Stando alla testimonianza attribuita a frate Illuminato da Rieti, Francesco mette l'accento non sulla politica o l'economia o la cultura, ma, come è comprensibile, sulla fede. In Francesco la difesa della fede può giustificare l'azione crociata. San Bonaventura da Bagnoregio nell'opera In Hexaemeron, coll. XIX, n. 14, in Opera omnia V, 422 (cfr. et Miscellanea bonaventuriana, XV, 5) riferisce anche un altro episodio riguardante questo incontro, derivato dalla stessa fonte - e cioè frate Illuminato da Rieti - e che potrebbe aprire uno spiraglio sull'approccio culturale all'Islam all'epoca di Francesco:
«Ecco un esempio del beato Francesco, quando si recò a predicare al sultano. Questi gli domandò d'accettare una disputa con i ministri della sua religione. Ma il Santo gli rispose che non era possibile iniziare con loro una disputa sulla fede, perché se si voleva imbastirla sulla base della ragione, la fede è sopra i ragionamenti umani, se invece attraverso argomenti scritturistici, essi non accettavano la Scrittura. Insisteva perciò che piuttosto ci si sottomettesse insieme alla prova del fuoco: si preparasse un grande fuoco ed entrassero sia lui che i ministri della sua religione».
Francesco, in base a questo testo, sembra conosca sufficientemente i suoi interlocutori visto che rileva la relativa povertà degli elementi comuni per un dialogo efficace. Un confronto laico more hodierno sulla base della ragione però non era certo concepibile all'epoca. In realtà, anche oggi, eccezion fatta per alcuni ambiti modernisti dell'Islam, un approccio laico e puramente razionale fra Cristianesimo e Islam è molto difficile. Francesco ovviamente esclude anche l'argomento scritturistico, cioè biblico, sapendo bene che, a maggior ragione, un simile terreno di confronto sarebbe stato respinto. Rimaneva cosí solo il terreno della prassi, cioè della fede vissuta e dei segni, in questo caso quello del camminare in mezzo al fuoco: l'Islam, al di fuori di un ambito prettamente integralista, è sensibile ad una testimonianza cristiana autentica. Di fronte ad essa il credente mussulmano risponde non di rado con il rispetto e la tolleranza. Francesco lo sa ed è proprio su questo terreno che - a detta di San Bonaventura - potrebbe vincere il confronto. In ogni caso si tratterà di una vittoria sua, personale, non riuscirà purtroppo - ce lo conferma la storia - ad aprire un dialogo e un confronto culturale piú ampio, tanto meno aperto ad un'evoluzione politica e diplomatica pur sempre necessaria. A sfavore della prova del fuoco tuttavia si deve rilevare che il Concilio Lateranense IV del 1215 aveva condannato l'ordalia (const. 18, De iudicio sanguinis et duelli clericis interdicto) ed è difficile immaginare che Francesco volesse ricorrervi. Piú volte però San Bonaventura definisce e giustifica l'agire di Francesco... superno illustratus oraculo. È una sorta di allusione alla nota frase paolina: «L'uomo spirituale [...] giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno» (1Cor 2,15).
Resta, come già detto, un dubbio: fino a che punto queste testimonianze esprimono realmente lo spirito di Francesco? Non è facile dirlo. Non cosí per quanto riguarda il testo della sua Regola non bollata (RegNB XVI, 1-10: FF 42-43), della cui autenticità non possiamo dubitare, e dove ritroviamo senza dubbio il suo pensiero:
«Dice il Signore: Ecco, io vi mando come pecore in mezzo ai lupi. Siate dunque prudenti come serpenti e semplici come colombe (Mt 10, 6). Perciò quei frati che, per divina ispirazione, vorranno andare fra i Saraceni e altri infedeli, vadano con il permesso del loro ministro e servo. Il ministro poi dia loro il permesso e non li ostacoli se vedrà che essi sono idonei ad essere mandati; infatti dovrà rendere ragione al Signore, se in queste come in altre cose avrà proceduto senza discrezione. I frati poi che vanno fra gli infedeli, possono ordinare i rapporti spirituali in mezzo a loro in due modi. Un modo è che non facciano liti o dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio (1Pt 2,13) e confessino di essere cristiani. L'altro modo è che, quando vedranno che piace al Signore, annunzino la parola di Dio perché credano in Dio onnipotente Padre e Figlio e Spirito Santo, creatore di tutte le cose, e nel Figlio Redentore e Salvatore, e siano battezzati, e si facciano cristiani, poiché, se uno non rinascerà per acqua e Spirito Santo non potrà entrare nel regno di Dio (Gv 3,5)».
In queste parole rivolte ai frati missionari, sembra proprio di cogliere lo stesso atteggiamento interiore rilevato nella Chronique d'Ernoul: Francesco è un vero uomo di pace, un uomo realista, concreto e alieno dai compromessi. Non accetta lo spirito di discordia, ma se un dialogo si rivela impossibile, ovvero sterile, accetta con un sereno spirito critico la scelta dell'interlocutore. Non cosí per i missionari invece ai quali dice: «siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio» (cfr. 1Pt 2,13). E piú avanti aggiunge: «E tutti i frati, ovunque sono, si ricordino che si sono donati e hanno abbandonato i loro corpi al Signore nostro Gesú Cristo. E per il suo amore devono esporsi ai nemici sia visibili che invisibili, poiché dice il Signore: "Colui che perderà l'anima sua per causa mia la salverà per la vita eterna"» (RegNB XVI, 10-11: FF 45). In ogni caso Francesco non guarda tanto all'aspetto politico-economico e nemmeno a quello culturale, egli è piú preoccupato per la fede, una fede che va testimoniata anche dinanzi alla spada minacciosa dell'Islam; una fede che è, in ultima analisi, il fondamento piú fecondo e vitale di tutta l'umana civiltà.
Certamente Francesco, potendo scegliere, non avrebbe mai voluto il ricorso alle crociate, ma da questo non si può certo affermare che le condannasse in blocco sic et simpliciter. Senza dubbio fu uno dei pochi uomini dell'epoca in grado di concepire vie nuove, al di là delle soluzioni puramente conflittuali, che apparivano come l'unica risposta possibile. Egli ebbe anche il coraggio della critica aperta, infatti, l'appello che Francesco rivolse al sultano e che la Chronique d'Ernoul ci ha trasmesso resta intatto, tagliente e sincero:
«Se tu, sire, vorrai credere alle nostre parole, noi consegneremo la tua anima a Dio, perché ti diciamo in verità che se tu morrai in questa legge che ora professi, sarai perduto né mai Dio avrà la tua anima. Proprio per questo noi siamo venuti. Ma se ci darai ascolto e vorrai comprendere, noi ti mostreremo con argomenti irrefutabili, alla presenza dei piú saggi dottori del regno, se li vorrai convocare, che la vostra legge è falsa» (FF 2232).

P. Antonio Atzeni Cappellano Militare

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