sabato 12 settembre 2009

La battaglia di Vienna (Anno Domini 1683)

Lo scenario politico-militare nella seconda metà del Seicento - secolo alquanto travagliato - appare oscuro e denso d'incertezze. La Guerra dei Trent'Anni (1618-1648), sotto le apparenze di una guerra di religione, era in realtà un confronto politico-militare fra la Casa regnante francese dei Borbone e quella degli Asburgo.
L'intento era quello di togliere agli Asburgo l'egemonia sulla Germania, che derivava loro dall'autorità imperiale. Per raggiungere questo scopo Armand du Plessis, meglio noto come cardinal Richelieu (1585-1642), inaugurando una politica fondata sul mero interesse nazionale a scapito di una visione europea e cattolica, si alleò con i principi protestanti.
I Trattati di Westfalia del 1648 sancirono l'indebolimento definitivo del Sacro Romano Impero. È cosí che sulla Germania, devastata, divisa fra cattolici e protestanti e separata politicamente, si stabilisce l'egemonia del re di Francia, Luigi XIV (1638-1715).
Il ruolo cosí raggiunto in Europa spinge il Re di Francia ad aspirare ormai alla corona imperiale e, in questa ottica, egli non esita a cercare perfino l'alleanza dell'Impero ottomano, del tutto avverso ad ogni ideale cristiano ed europeo. Sul finire del secolo dunque l'Europa è prostrata, divisa in se stessa tra fazioni religiose e lotte dinastiche, con una crisi economica e demografica conseguente alla guerra, che la resero quanto mai vulnerabile.


L'offensiva islamica
L'impero ottomano, che aveva conquistato i paesi balcanici fino alla pianura ungherese, il 1º agosto 1664 era stato temporaneamente bloccato dagli eserciti imperiali guidati da Raimondo Montecuccoli (1609-1680) nella battaglia di San Gottardo, in Ungheria.
Poco dopo però, sotto la guida strategica del Gran Visir Qara Mustafā (1634-1683), l'offensiva riprende, incoraggiata paradossalmente da Luigi XIV e dalla sua disinvolta politica anti-asburgica. Non poteva esserci momento piú favorevole per una campagna vittoriosa e ormai il cuore dell'Europa era alla portata delle armate ottomane.
Pressoché isolata, soltanto la Repubblica di Venezia impedisce ai Turchi di ottenere il dominio nell'Egeo, nella Grecia e nella Dalmazia. Si trattava però di una lotta ormai impari e, infatti, culminò nella perdita di Candia nel 1669, nonostante le eroiche gesta di Francesco Morosini (1618-1694).
Nel 1672 la Podolia - una parte dell'attuale Ucraina - viene sottratta alla Polonia e nel gennaio del 1683, ad Istanbul, le armate ottomane volgono in direzione dell'Ungheria. È un immenso esercito quello che si mette in marcia verso il cuore dell'Europa, sotto la guida di Qara Mustafā e di Maometto IV (1641-1692).
Il disegno che essi tentarono di realizzare era quello di una sorta di "grande Turchia europea e mussulmana" di cui Vienna doveva essere la futura capitale; una città che a sua volta sarebbe stata una testa di ponte verso il resto dell'Europa assediata e destinata alla sconfitta.
Le poche forze imperiali rimaste - rinforzate dalle milizie ungheresi guidate dal duca Carlo V di Lorena (1643-1690) - tentarono invano di resistere. Il gran condottiero al servizio degli Asburgo prese il comando, benché reduce da una gravissima malattia, dalla quale - si disse - l'avevano salvato le preghiere di un padre cappuccino, noto a molti come padre Marco da Aviano.
Padre Marco era stato inviato dal Papa presso l'Imperatore per perorare la causa della crociata anti-turca. Il primo atto di padre Marco fu quello di chiedere che in tutte le insegne imperiali fosse riportata l'immagine della Madre di Dio. Da allora le bandiere militari austriache porteranno sempre l'effigie della Madonna per i successivi due secoli e mezzo. Solo Adolf Hitler dopo la sua ascesa al potere le farà togliere.


L'inizio della battaglia decisiva
L'otto luglio del 1683 l'esercito ottomano avanza verso Vienna giungendovi il 13 luglio e cingendola d'assedio. Fu una marcia di conquista che non risparmiò le regioni attraversate, votando alla distruzione città e villaggi, chiese e conventi, massacrando e riducendo in schiavitú le popolazioni cosí sottomesse.
L'imperatore Leopoldo I (1640-1705), dopo aver affidato il comando militare al conte Ernst Rüdiger von Starhemberg (1638-1701), decise di lasciare Vienna e raggiunse la città di Linz per organizzare cosí la resistenza della Germania.
Nell'impero risuonavano ormai le "campane dei turchi", com'era già accaduto nel 1664 e nel secolo precedente, e iniziò la mobilitazione di tutte le forze disponibili.
L'imperatore avviò febbrilmente le trattative per chiamare a raccolta tutti i principi, cattolici e protestanti, tentando di contrastare l'opera diplomatica di Luigi XIV e di Federico Guglielmo di Brandeburgo (1620-1688). Fu cosí che chiese anche l'intervento dell'esercito polacco, appellandosi al supremo interesse della salvezza della Cristianità.


L'opera di Papa Innocenzo XI
In questo momento angoscioso la politica europea e orientale sapientemente promossa dalla Santa Sede da lunghi anni sortí i suoi frutti. Il merito fu in gran parte del cardinale Benedetto Odescalchi (1611-1689), eletto Papa nel 1676 (con il nome d'Innocenzo XI) e beatificato nel 1956 da Papa Pio XII.
Convinto assertore della crociata, il Pontefice, che da cardinale e governatore di Ferrara si era guadagnato il titolo di "padre dei poveri", avviò una politica lungimirante tesa a creare un sistema d'equilibrio fra i principi cristiani per indirizzare la loro azione politica contro l'Impero ottomano.
Avvalendosi di personalità eccezionali come i nunzi Obizzo Pallavicini (1632-1700), Francesco Buonvisi (1626-1700), padre Marco da Aviano ed altri, riuscí a comporre i contrasti in seno all'Europa, a pacificare la Polonia con l'Austria e perfino a favorire l'avvicinamento con il Brandeburgo (protestante) e con la Russia ortodossa.
Tutte le divisioni in seno alla Cristianità dovevano venir meno davanti alla difesa dell'Europa dall'islam. Fu cosí che, nonostante tutto, nel 1683 il Papa riuscí a creare una grande coalizione cristiana e a trovare le risorse necessarie per finanziare un'impresa politica e militare d'enormi proporzioni.


L'assedio di Vienna
Nella città intanto ebbe inizio la resistenza eroica all'assedio. Si calcola che circa 6.000 soldati e 5.000 uomini della difesa civica seppero far fronte all'Armata ottomana, forte di ben 300 cannoni. Nella città, solo la campana di Santo Stefano, ormai chiamata Angstern (angoscia), con i suoi rintocchi chiamava a raccolta i difensori. Gli assalti alle mura e gli scontri isolati erano pressoché continui, mentre i soccorsi erano ancora lontani.
Sollecitato dal Pontefice e dall'imperatore, il re di Polonia Giovanni III Sobieski (1624-1696), alla testa dell'esercito, si mosse a tappe forzate verso Vienna, che ormai già due volte aveva salvato la Polonia dai turchi. Finalmente il 31 agosto i suoi contingenti si congiunsero con quelli del duca Carlo di Lorena, che in seguito assunse il comando supremo.
L'esercito cristiano, tutte le forze di quell'Europa cosí prodigiosamente riunita, si mise in marcia verso Vienna, dove la situazione era ormai drammatica.
I turchi avevano aperto delle brecce nei bastioni e i difensori superstiti, dopo aver respinto decine d'attacchi ed effettuato numerose sortite, erano allo stremo delle forze. Le truppe ottomane avevano quasi il libero accesso all'Austria e alla Moravia. L'undici settembre Vienna visse con angoscia quella che parve l'ultima notte.
Von Starhemberg inviò a Carlo di Lorena un ultimo disperato messaggio: "Non perdete piú tempo, clementissimo Signore, non perdete piú tempo".


La battaglia finale
È l'alba del 12 settembre 1683, quando padre Marco da Aviano, dopo aver celebrato la Messa, servita dal re di Polonia, benedice e arringa l'esercito ormai schierato accompagnandolo in campo aperto. Poco dopo a Kalhenberg, presso Vienna, 65.000 cristiani affrontano in battaglia campale 200.000 ottomani.
A capo degli eserciti cristiani sono presenti i principi del Baden e di Sassonia, i signori di Turingia e di Holstein, i Wittelsbach di Baviera, il generale italiano conte Enea Silvio Caprara (1631-1701), il giovane principe Eugenio di Savoia (1663-1736), insieme ai polacchi e agli ungheresi.
La battaglia durò tutto il giorno e terminò con un'epica carica all'arma bianca, guidata da Sobieski in persona, che provocò finalmente lo sfacelo dell'Armata ottomana. Le forze europee scese in campo subiranno la perdita di circa 2.000 uomini contro le oltre 20.000 dell'avversario.
L'esercito ottomano fuggí in disordine abbandonando ogni cosa, ma non senza aver vilmente trucidato centinaia di prigionieri e di schiavi cristiani.
Il re di Polonia inviò al Papa le bandiere catturate accompagnandole da queste parole: "Veni, vidi, Deus vicit". Da allora, per volere di Papa Innocenzo XI, il 12 settembre è dedicato alla festa del Ss. Nome di Maria, in ricordo e in ringraziamento della vittoria.
Il giorno seguente l'Imperatore entrò nella Vienna liberata, alla testa dei principi dell'impero e delle truppe confederate. Nella cattedrale di Santo Stefano il vescovo di Vienna-Neustadt, poi cardinale, il conte Leopoldo Carlo Kollonic (1631-1707), celebrò un solenne Te Deum di ringraziamento.


Il riflusso dell'Islam
La vittoria di Kalhenberg e la liberazione di Vienna furono il punto di partenza per la controffensiva condotta dagli Asburgo contro l'impero ottomano. Gli anni che seguirono portarono alla liberazione dell'Ungheria, della Transilvania e della Croazia. Rientrato a Belgrado Qara Mustafā fu decapitato per ordine del Sultano.
Lo stesso Maometto IV verrà deposto nel 1687. Il fallimento del secondo assedio di Vienna è illustrato molto bene dalle parole del cronista ottomano contemporaneo Silihdar: «Fu una sconfitta disastrosa, grave come non ce n'erano mai state dalla nascita dello stato ottomano» (Sılıhdar Fındıclı Mehmed, Tarih, Istanbul 1928, II, 87).
Sotto le insegne imperiali le risorse di tedeschi, ungheresi, cechi, croati, slovacchi e italiani, costruirono una realtà multietnica e multireligiosa, che avrebbe dato all'Europa Orientale una sostanziale stabilità fino al 1918. Si era in un certo qual modo ripetuta l'opera di Papa san Pio V (1504-1572) a Lepanto, quando il 7 ottobre 1571 l'avanzata islamica ebbe una battuta d'arresto.
Per la svolta decisiva impressa alla storia dell'Europa Orientale la battaglia di Vienna può essere paragonata alla vittoria di Poitiers del 732, quando Carlo Martello (688-741) fermò l'avanzata degli arabi.
Nel 1684 nacque cosí la Lega Santa che vide un accordo fra tedeschi e polacchi, fra impero e imperatore, fra cattolici e protestanti, animata e promossa dalla diplomazia e dalla visione universalista della Santa Sede, tesa al perseguimento dell'obiettivo della liberazione dell'Europa dal dominio e dall'influenza turca e dall'affermazione dell'unità morale e politica dell'Europa.





Breve bibliografia

Macartney C. A., L'impero degli Asburgo, Milano, 1978.
Wandruszka A., Gli Asburgo, Milano, 1982;
Taylor A., La monarchia asburgica, Milano, 1985.
LEWIS B., Il suicidio dell'Islam. In che cosa ha sbagliato la civiltà mediorientale, Milano 2002.

venerdì 11 settembre 2009

REAGIRE AL TERRORE

Reagire alla paura, a tutte le paure, significa cominciare a vincere.Lottare contro il terrore è un dovere nei confronti della civiltà e delle future generazioni

Il nuovo ordine mondiale

Dopo i fatti del 1989, con il crollo del muro di Berlino e la fine della guerra fredda, molti hanno sperato in una nuova era di prosperità e di pace. L'inizio del nuovo millennio, nel caso ce ne fosse stato ancora bisogno, ha smentito questo auspicio. La logica del bipolarismo per oltre quaranta anni ha retto il mondo e ha condizionato fortemente la politica e la storia di molti popoli; la sua fine non poteva non rimettere in moto tutti quei processi sopiti che covavano sotto le ceneri, a cominciare dalle rivendicazioni nazionalistiche, alimentate o sostenute dalle tensioni politico-culturali e religiose.
Siamo immersi piú che mai in un’epoca di trasformazioni dalle quali scaturirà un diverso ordine mondiale. Riuscire a porre le basi per una soluzione realistica dei problemi contingenti è una sfida che ci impegnerà per lungo tempo e che richiederà piú che mai uno sforzo attento e intelligente. Potremmo essere tentati di rimandare questo compito o di affrontarlo in modo superficiale ma questo comporterà solo costi umani ed economici di gran lunga superiori: i problemi irrisolti si ripresenteranno nel futuro con maggiore virulenza e gravità. Non possiamo e non dobbiamo dunque permetterci alcuna superficialità, ecco perché è importante rispondere alle problematiche odierne esprimendo al massimo le nostre possibilità.
Il terrorismo che oggi ci insidia è anche la conseguenza di errori storici, di problemi politici e culturali irrisolti e incancreniti che interpellano i nostri popoli e le nostre coscienze. Sarebbe illusorio e pericoloso ritenere che le sue incognite siano risolvibili semplicisticamente in termini strategico-militari. L’intervento militare è talvolta inevitabile e necessario, soprattutto in un’ottica di contenimento e di emergenza, ma spesso non può risolvere la questione alla radice. La sfida può e deve essere affrontata anzitutto in un’ottica politica, culturale e di fede e sarà proprio su questi piani che potremmo davvero vincerla o perderla. Occorre identificare e perseguire non solo i responsabili del terrorismo, ma tutti quei processi politici, economici e culturali che ne alimentano in qualsiasi modo la fiamma. A ragione Paolo VI nella sua enciclica Populorum progressio (nn. 34, 76, 83, 87) ebbe saggiamente a ricordare che il nome nuovo della pace è sviluppo. Sviluppo a tutto campo, per tutti, nessuno escluso. Escludere popoli e nazioni dallo sviluppo significa porre le premesse non per l’ordine ma per il caos mondiale: è una facile profezia.
Sarebbe un grave errore tuttavia cadere nella trappola politica e mediatica fin troppo rozza consistente nell'identificare semplicisticamente buoni e cattivi. Il terrorismo è un problema serio ma la politica globale messa in atto per combatterlo non lo è da meno. Il rimedio in certi casi, alla lunga, potrebbe essere anche peggiore del male e le insistenti richieste di rinuncia alle garanzie democratiche in cambio di una maggiore ed illusoria sicurezza fanno pensare al peggio. Assieme al terrorismo dunque occorre combattere un'altro pericolo, quello totalitario, cui tendono i nostri sistemi politici sempre più autoreferenziali. Occorre dunque cercare ed esigere la verità, sempre la verità, per prima cosa, contro tutti i terrorismi e i totalitarismi.

I pregiudizi ideologici
Per rispondere efficacemente a queste sfide però occorre anche sgomberare il campo da tutti quei pregiudizi culturali che da troppo tempo ormai paralizzano la coscienza politica e culturale dell’Occidente. Ci sono ideologie e movimenti che da decenni puntano il dito sulle responsabilità storiche del mondo occidentale e non sempre si tratta di sana e auspicabile autocritica ma di profonda e radicale delegittimazione: Occidens delendum est - l’Occidente deve essere distrutto. A dirlo, molto prima delle attuali organizzazioni estremistiche, sono i movimenti culturali, eversivi e non, che trovano spesso nell’ideologia marxista-leninista la loro matrice primeva. Uno dei frutti tipici di quell’ideologia è stato appunto l’anti-occidentalismo. Prima del suo sorgere lo spirito antieuropeo albergava piú che altro in quei contesti soggetti al dominio coloniale e imperialistico dei grandi stati nazionali come - almeno in tempi piú recenti - Regno Unito, Francia, Olanda e Belgio. Occorre sottolineare tuttavia che questo spirito antieuropeo, eccetto alcuni casi particolari, non partiva tanto da posizioni propriamente ideologiche, quanto piuttosto da una naturale e spontanea opposizione allo straniero occupante. Un’occupazione non di rado priva di scrupoli, mossa dal puro profitto economico e dagli interessi strategici e colpevole di una gestione politica e sociale a dir poco irresponsabile.
Prima di continuare però occorre soffermarsi su un dato storico: l'imperialismo non è certo esclusivo dell'Occidente. Anche l'Oriente ha conosciuto una sete di dominio e di potere non meno feroce e omicida. Ne sanno qualcosa i popoli che per secoli subirono dominazioni come quella mongola, araba, ottomana e piú recentemente nipponica. L'impero ottomano, ad esempio, cessò di rappresentare un pericolo per l'Europa solo agli inizi del Novecento, dopo l'avvento della rivoluzione di Mustafa Kemal Atatürk. Lo spietato dominio ottomano - simboleggiato dai suoi “giannizzeri” - seminò il terrore in Occidente per circa seicento anni. Le sue armate giunsero fino alle porte di Vienna nel 1683, complice la Francia di Luigi XIV, e furono respinte in extremis dalle truppe dell’imperatore Leopoldo I, alle quali si erano unite le armate tedesche e quelle polacche di Giovanni Sobieski, grazie ad un gioco di pazienti alleanze politiche, militari e religiose, sostenute dalla Santa Sede, che sembravano umanamente irrealizzabili. Nonostante questa grande vittoria dell’Europa molti intellettuali dimostrano di avere una memoria corta, non cosí invece per le Crociate, assurte ad abusato luogo comune anticlericale, a dispetto della loro funzione difensiva e controffensiva: liberazione dei luoghi conquistati militarmente dagli eserciti mussulmani e salvaguardia delle vie commerciali per l’Oriente. L’Europa insomma nel grande club imperialista assumerà un ruolo davvero preponderante solo in tempi relativamente recenti, grazie anche alle superiori conoscenze tecnologiche sollecitate dalla rivoluzione industriale che favoriranno l’espansione coloniale ottocentesca. L’Occidente assumerà cosí grandi responsabilità storiche ma non certo da protagonista unico della scena mondiale. Il mito dell’Oriente saggio e buono per definizione, infatti, come il “mito del buon selvaggio” di Jean-Jacques Rousseau e di una certa letteratura illuminista, è solo il parto di fervide e ingenue fantasie occidentali.

L'anti-occidentalismo marxista-leninista
Con l’avvento dell’ideologia marxista-leninista sorgerà un anti-occidentalismo radicale e soprattutto piú diffuso. Il mondo occidentale, vittima del suo stesso liberismo sfrenato, genererà in sé il male ideologico che gli avvelenerà la vita e ne minerà l’unità, la coscienza e l’identità fino ai nostri giorni. L’Occidente verrà dipinto cosí come il portatore di tutti gli errori e di tutti gli orrori: secoli e millenni di civiltà verranno sconfessati e denunciati dai novelli ideologi che guarderanno a Oriente come al luogo della salvezza e della libertà. L’Unione Sovietica di Lenin, di Stalin e Breznev, la Cina di Mao, il Vietnam, la Cambogia, perfino Cuba e le nuove teologie della liberazione accenderanno le speranze mal riposte - historia docet - di molti occidentali, pronti a farne propaganda, piú o meno in buona fede, ma spesso ben lungi dal farne l’esperienza sulla propria persona. Criticare la civiltà e la cultura occidentali dall’interno del loro contesto liberale non è poi cosí rischioso e molti intellettuali vengono assecondati da lobby culturali e politiche che si pretendono alternative e che sono avide di novità tanto piú gradite quanto piú dissacranti. Anche a livello filosofico, sociologico e scientifico sorgeranno teorie e movimenti che getteranno le basi per una critica radicale e non di rado con esiti devastanti.
Un vasto movimento culturale e d’opinione - ancora oggi - ha preso come obiettivo la delegittimazione dell’Occidente e della sua cultura a cominciare dalle sue radici giudeo-cristiane; un movimento che paradossalmente è nato e si è affermato proprio nelle fertili scuole e nei raffinati collegi e campus universitari occidentali. Si tratta di storia recente dunque e mentre il blocco orientale a partire dagli anni ‘50 si avviava verso un’era impressionante di militarizzazione forzata, nel mondo occidentale il fenomeno pacifista esplodeva con tempismo perfetto: un pacifismo a senso unico però che si è sempre guardato bene dall’agire oltre la “cortina di ferro”. Cosí scriveva, infatti, il giornalista e storico Indro Montanelli nel 1988:
«Secondo qualcuno, è stato il diffondersi dei movimenti pacifisti che ha costretto le classi dirigenti di tutto il mondo a prendere atto della ribellione delle coscienze a qualsiasi forma di violenza. [...] L'ipotesi è un'autentica bufala molto facile da smascherare. I conflitti che fin qui insanguinavano il mondo si svolgevano in terre e latitudini in cui di pacifismo non c'era neanche l'ombra. La propaganda e i movimenti pacifisti attecchiscono e si sviluppano nei paesi democratici dove la pace c'è già. Una volta che alcuni loro adepti italiani vollero andare a propagandarli nella Russia di Breznev furono impacchettati e rispediti al mittente» (MONTANELLI I., Oggi, 31 agosto 1988).
Sí, l'Occidente ha le sue responsabilità, ma ha anche meriti incontestabili, come l'aver portato al mondo intero l'ideale della dignità dell'uomo e della libertà, con tutti i valori che ne conseguono, uniti ad una sincera capacità autocritica mai vista prima nella storia: i grandi sistemi culturali dell'Oriente concepiscono l'autocritica dell'individuo di fronte al sistema, mai quella del sistema stesso. Goffredo Parise, nel suo libro Cara Cina (Longanesi 1966) affermò che l'Occidente dalla Cina deve apprendere lo stile, la Cina dall'Occidente deve apprendere la libertà. È vero, l'Occidente e l'Oriente devono sapersi integrare l'uno con l'altro dando al mondo la possibilità di respirare con entrambi i polmoni. Anche l'Oriente ha le sue responsabilità, ha i suoi meriti incontestabili... e i suoi gravi, gravissimi errori storici. Perché le grandi civiltà che pure ha espresso sono scomparse o non sono state capaci di evolversi? Perché l'Islam fin dal suo sorgere ha coltivato un'aggressiva politica imperialistica? Perché pur avendo trasmesso parte dell'antica cultura greca non ha sentito l'esigenza di integrarla in un autentico processo evolutivo? Perché non è sorta dalle sue istanze la scintilla del moderno progresso scientifico, tecnologico e culturale? Perché non ne è scaturita la stessa scintilla della libertà che è nata per esempio dalla Rivoluzione Americana? Perché non ne è sorta la chiara percezione della dignità dell'uomo che invece verrà sancita inequivocabilmente da tutte le legislazioni occidentali? Il fatto è che il problema dell'Islam è l'Islam stesso, ciò che molti, anche in Occidente, non hanno il coraggio di affermare.

Islam, scienza e cristianesimo
Molti, ma non tutti. Vale la pena di riportare un testo che è di estrema chiarezza circa la problematica del rapporto tra l'Islam e la scienza. Un dissidio che non ha trovato risposte e che il cristianesimo invece è riuscito a superare brillantemente, preconcetti ideologici a parte. Così scrive Frank J. Typler, fisico matematico alla Tulane University di New Orleans:
«Nel 1982 l’Istituto di studi politici di Islamabad, in Pakistan, raccomandò che i libri di testo scientifici venissero modificati per sottolineare che ogni mutamento era dovuto non all’azione della legge fisica ma a Dio:
C’è un veleno latente nel sottotitolo L’energia causa i mutamenti, perché dà l’impressione che l’energia, piuttosto che Allah, sia la vera causa. Analogamente, è antiislamico insegnare che la combinazione di idrogeno e ossigeno produce automaticamente acqua. Il punto di vista islamico è questo: quando gli atomi di idrogeno si avvicinano agli atomi di ossigeno, per volontà di Dio, si forma acqua.
Il sottinteso è che Dio potrebbe cambiare idea un istante dopo, e l’acqua non si formerebbe piú. Il teologo musulmano Abu Hamid Mohammed al-Ghazali (1058-1111), famoso per aver favorito l’accoglienza del sufismo (misticismo musulmano) nell’islam ortodosso, scrisse un libro, L’incoerenza dei filosofi, in cui attaccava l’idea di causa ed effetto, e ne concludeva che la conoscenza scientifica è impossibile. Invece di seguire i filosofi naturali (o scienziati) e dire che il fuoco brucia il cotone, sosteneva:
«Questo lo neghiamo, dicendo: l’agente della combustione è Dio, mediante la creazione del nero nel cotone e la separazione delle sue parti, ed è Dio che ha fatto bruciare il cotone, o tramite la mediazione degli angeli o senza mediazione. Perché il fuoco è un corpo morto, che non ha azione, e qual è la prova che sia l’agente? In effetti i filosofi [gli scienziati] non hanno altra prova che l’osservazione del verificarsi della combustione, quando c’è contatto con il fuoco, ma l’osservazione dimostra soltanto una simultaneità, non un rapporto di causa ed effetto, e in realtà non c’è altra causa che Dio. I teologi sufi seguirono al-Ghazali insistendo che le leggi fisiche non esistono perché Dio distrugge e ricrea l’universo in ogni istante».
Nel corso dei miei studi piuttosto ampi sull’islam, non sono mai riuscito a trovare una sola scoperta scientifica significativa compiuta nell’intera storia della civiltà islamica fino al XX secolo. Gli esempi di risultati scientifici documentati da parte di studiosi islamici sono sostanzialmente banali. Tutta la fisica e tutta l’astronomia moderne derivano dall’opera dei cristiani Galileo (1564-1642) e Copernico (1473-1543), che in pratica erano all’oscuro dell’«opera» degli «scienziati» islamici, e presero invece le mosse dall’opera dei greci Archimede (290-211 a.C.) e Tolomeo (100-170 d.C.), rispettivamente. Dal punto di vista della scienza, la civiltà islamica è come se non fosse esistita. Attribuisco questo fatto alle dottrine teologiche islamiche, appena richiamate, contrarie all’idea di leggi naturali confermate a livello sperimentale, e anche al fatto che, in tutta la storia islamica, chiunque fosse in disaccordo con la teologia prevalente è stato sempre considerato un apostata, e un numero schiacciante di giuristi islamici ha convenuto che la pena per l’apostasia sia la morte. Nessuno cercherà le leggi di natura se anche il solo ipotizzare che esistano lo rende soggetto alla pena capitale. Nel 1983 si tenne in Kuwait un convegno di diciassette rettori di università arabe. Il principale argomento di discussione fu la domanda «La scienza è islamica?». La delegazione saudita sostenne che la risposta è no, essendo la scienza intrinsecamente laica e quindi, per ciò stesso, in contrasto con il credo islamico.
C’è una leggenda (falsa), forse messa in circolazione da critici cristiani dell’islam, secondo la quale, quando gli eserciti musulmani conquistarono la capitale dell’Egitto Alessandria, il loro capo, il secondo califfo Omar (‘Umar ibn al-Khattab, 586-644), ordinò che i libri della biblioteca fossero bruciati per scaldare l’acqua per il bagno dei soldati musulmani. Se i libri erano in contrasto con il Corano, erano eretici, e se erano in accordo con esso, erano superflui. In entrambi i casi dovevano essere distrutti. In realtà, la grande biblioteca di Alessandria aveva cessato di essere menzionata da testimoni oculari fin dal 100 a.C. circa, e nell’elenco dei capi bibliotecari non ci sono nomi successivi a quell’epoca, e quindi probabilmente la biblioteca aveva cessato di esistere verso il 100 a.C., forse distrutta durante il regno caotico del re egizio Tolomeo VIII, noto alla storia come Tolomeo lo Psicotico. (Non sto scherzando, questo era veramente il soprannome datogli dagli storici greci dopo la sua morte; la parola usata era psychon, che può essere tradotta anche con «ostile».) Cosí né i cristiani (che ne sono stati spesso accusati) né i musulmani furono responsabili della distruzione della grande biblioteca. La pretesa che fanatici religiosi abbiano bruciato la biblioteca è un mito. Ma ci fu una differenza cruciale tra le reazioni dei cristiani e dei musulmani a questo mito. I cristiani sentirono l’esigenza di scusarsene; molti studiosi musulmani, invece, prendendo per vero il mito, lo citarono con approvazione. In effetti, i libri in disaccordo con il Corano andavano distrutti, e non c’era alcun bisogno di leggere altri libri oltre il Corano.
C’è una sola eccezione alla regola che non vi siano stati e non vi siano importanti scienziati musulmani: Mohammed Abdus Salam (1926-1996). Salam fu uno dei principali creatori del modello standard della fisica delle particelle, una teoria che è assolutamente fondamentale per questo libro. Ho descritto il modello standard nel II capitolo e, come vedremo nell’VIII capitolo, esso è cruciale per comprendere come si sia verificata la resurrezione di Gesú. Saiam ricevette meritatamente il premio Nobel per la fisica nel 1979 per le sue ricerche sul modello standard, e la sua idea che la gravità quantistica possa rendere finita la teoria quantistica dei campi è essenziale per la teoria dei Punto Omega sul futuro ultimo, sebbene troppo complessa dai punto di vista tecnico per essere descritta qui. Salam era un musulmano nel senso che si definiva tale, e tutti coloro che lo hanno conosciuto sono convinti che fosse assolutamente sincero nel considerarsi un musulmano.
Salam è l’eccezione che conferma la regola. Con un atto del parlamento pakistano, nel 1974 la setta islamica ahmadi, cui Salam apparteneva, fu dichiarata eretica e soggetta a persecuzione. Pervez Hoodbhoy, coautore con Saiam di Islam and Science, ha riferito sul suo sito web nel 2002: «Al mio vicino della porta accanto, un ahmadi, hanno sparato al collo e al cuore ed è morto sulla mia automobile mentre lo portavo all’ospedale. La sua unica colpa era di essere nato nella setta sbagliata». Salam lasciò il nativo Pakistan negli anni ‘50, rendendosi conto che, in quel paese, fare della fisica sul serio sarebbe stato impossibile. Se fosse rimasto in Pakistan e avesse ugualmente raggiunto i risultati che poi ottenne come professore di fisica all’Università di Londra, sarebbe diventato il piú eminente ahmadi del Pakistan e, come tale, sarebbe probabilmente andato incontro alla stessa sorte del vicino di Hoodbhoy.
Muzaffar Iqbal, in un libro intitolato anch’esso Islam and Science, non menziona neppure una volta il massimo scienziato islamico di tutti i tempi, Abdus Salam, anche se il libro fu scritto nel 2002, in gran parte proprio per contraddire quello di Hoodbhoy e Salam, e pretendeva di costituire un esame approfondito delle conquiste scientifiche dell’islam. Iqbal menziona soltanto Hoodbhoy. Salam era un eretico, e quindi non un musulmano. Nel loro libro, Hoodbhoy e Salam avevano mostrato come pressoché tutti gli scienziati musulmani oggi considerati significativi fossero stati perseguitati al loro tempo. Come i difensori contemporanei dell’islam, il fisico francese cattolico Pierre Duhem (1861-1916) tentò di dimostrare che gli studiosi medievali cristiani avevano dato importanti contributi alla fisica, per esempio introducendo il concetto di inerzia. Né gli studiosi musulmani della cosiddetta Età dell’oro dell’islam (ca. 700-1100) né gli studiosi medievali cristiani diedero alcun contributo significativo alla fisica. Come ho sottolineato in precedenza, né Copernico né Galileo erano al corrente di questi «contributi significativi».
Nondimeno, la scienza moderna è stata una creazione della civiltà cristiana. Il periodo creativo della fisica e dell’astronomia greche ebbe termine intorno al 100 a.C. Questa data finale è importante, perché a volte si sostiene che fu l’ascesa dei cristianesimo a porre fine alla scienza greca. Non è cosí, come mostra il seguente elenco di fisici e astronomi greci, con le rispettive date di nascita e morte:
Pitagora di Sarno (580-500 a.C.), il primo grande matematico greco. La sua scuola scoprí il teorema che porta il suo nome e dimostrò l’esistenza dei numeri irrazionali.
Socrate (470-399 a.C.)
Platone (428-347 a.C.), il filosofo che era convinto che tutta la fisica dovesse basarsi sulla matematica.
Teeteto di Atene (417-369 a.C.)
Eudosso di Cnido (395-337 a.C.)
Aristotele (384-322 a.C.), il filosofo che sostenne che il moto non può essere descritto dalla matematica. I principali oppositori di Galileo erano seguaci di Aristotele.
Euclide di Alessandria (attivo tra il 323 e il 285 a.C.)
Aristarco di Sarno (attivo tra 310 e il 230 a.C.), il primo a proporre un sistema solare eliocentrico.
Archimede di Siracusa (290-211 a.C.)
Apollonio di Perga (260-190 a.C.)
Ipparco di Nicea (200-127 a.C.)
Ipsicle di Alessandria (190-120 a.C.)
Fine dei periodo creativo della scienza greca (ca. 100 a.C.)
(Fine della grande biblioteca di Alessandria)
Erone di Alessandria (attivo intorno al 60 d.C.)
Tolomeo di Alessandria (100-170 d.C.)
Diofanto di Alessandria (attivo intorno al 250 d.C.)
Pappo di Alessandria (attivo intorno al 320 d.C.)
Ipazia di Alessandria (370-415 d.C.), uccisa da una folla di cristiani.
Queste date indicano che le vite dei matematici e dei fisici elencati - al tempo dei greci non c’era distinzione tra le due categorie - si sovrapposero parzialmente, e che essi avrebbero potuto conoscersi» (cfr. TYPLER F. J., La fisica del cristianesimo..., Mondadori Ed., Milano, 2008, 138-142).
Il contrasto fra i valori e la prassi in Occidente purtroppo può essere bruciante, ma è molto piú bruciante il silenzio - quando non addirittura la negazione teorica e pratica - di molte culture e legislazioni orientali. Ancora oggi, molti paesi orientali, quelli islamici per primi, non hanno sottoscritto la Dichiarazione Universale dei diritti dell'uomo, altri hanno proposto una serie di vaghe "dichiarazioni islamiche dei diritti dell'uomo", con il serio limite di essere ambigue quanto a terminologia, formulazioni e contenuti. Il problema oltretutto è che per l'Islam «"l'azione di Allah nella storia coincide con l'azione dei suoi fedeli, le vittorie dei suoi fedeli sono le sue vittorie, ma anche le sconfitte dei suoi fedeli sono le sue sconfitte. Gravato da una cosí pesante responsabilità, l'uomo musulmano ha finito per non osare piú nulla di radicalmente nuovo". E questo spiega l'immobilismo della sua "cultura" rispetto, per esempio, a quella giapponese. Da questa frustrazione nasce l'odierno terrorismo integralista, che ha il fine dichiarato della restaurazione del califfato» (cfr. RONZA R., Il Giornale, 17 luglio 2005).

L'integrazione possibile
Nonostante questo, secoli di civiltà occidentale ci impediscono procedere per semplicistiche contrapposizioni: non si tratta di decidere fra Occidente e Oriente, ma di capire come integrare l'uno con l'altro in un dialogo fecondo per entrambi. Non si può disprezzare il patrimonio dell’Oriente, ma non si può certo non amare quello dell’Occidente che ha dato all’umanità un patrimonio perenne e intramontabile di cultura e di civiltà. Difendere questo patrimonio è un dovere per tutti, degli europei per primi. E invece c’è una parte dell’Occidente che, pur vivendoci agiatamente, odia l’Occidente. Alcuni mass media, opinion leaders e intellettuali vogliono imporre il teorema ideologico per cui l’Occidente cristiano è sempre e comunque colpevole. Assistiamo cosí ad un liberalismo sempre piú impotente che ha rinunciato alla difesa di se stesso sfoggiando un laicismo tanto presuntuoso e settario quanto debole ed esitante di fronte agli attacchi dell’ideologia islamica fondamentalista. Un’ideologia apprezzata - ormai è evidente - anche per il suo anti-americanismo. L’impressione però, confortata dalla storia recente, è che questo apprezzamento costi e costerà sempre piú caro a tutto l’Occidente e alla lunga all’intero ordine mondiale.
Realisticamente parlando l'Occidente, Stati Uniti fra i primi, ricopre un ruolo fondamentale nella storia dell'umanità; che può e deve essere integrato ma che non può essere sostituito radicalmente da altri sistemi politici culturali. L'Occidente ha certamente bisogno di una critica seria e costruttiva ma è illusorio pensare che si possa avere un futuro senza il suo apporto decisivo: il crollo dell'Occidente, fosse pure limitato al solo contesto nord-americano, alla fine rappresenterebbe un colpo ed un'involuzione disastrosa per il mondo intero. Ecco perché è insensato gridare: Occidens delendum est. L'obbiettivo può essere uno solo: migliorare e progredire, non certo corrodere e distruggere. I manovali del terrore in ultima analisi non possono vincere e la loro tattica suicida è un segno eloquente di questa intrinseca debolezza, di questo "vuoto d'umanità" che lascia dietro di sé solo la morte, senza alcuna speranza, senza nessuna compassione. Agiscono cosí a causa di una concezione raccapricciante di un "credo" per il quale la vita umana, anche la piú innocente, non ha autentico valore e dignità. Quante giovani vite sacrificate nei suoi innumerevoli falò del terrore, contro i quali dobbiamo ricordare: «Non si trovi in mezzo a te chi immola, facendoli passare per il fuoco, il suo figlio o la sua figlia [...] perché chiunque fa queste cose è in abominio al Signore» (Dt 18,10-12). Questo secolo dunque rischia di vedere il collasso dell'Islam, per la sua infedeltà alle istanze spirituali più profonde dell'uomo, ma anche quello dell'Occidente come lo conosciamo oggi, per la sua infedeltà al Vangelo e alle sue radici fondamentali. La speranza è che la Chiesa come seppe far rinascere la civiltà dalle rovine dell'antico impero romano possa fare altrettanto da quelle della modernità atea e materialistica.

La guerra "giusta"
«Non si trovi in mezzo a te chi immola, facendoli passare per il fuoco, suo figlio o la sua figlia [...] perché chiunque fa queste cose è abominio al Signore» (Dt 18,10-12). Quella del Deuteronomio, prestata a questo contesto, è una parola che condanna la fede negli idoli e i sacrifici umani agli dei falsi. Non è falsa una fede che chiama santa una guerra e martire un assassino suicida? Non è corretto condannare sic et simpliciter una fede religiosa in quanto tale, ma è lecito, anzi doveroso, giudicare la condotta di ciascuno. È possibile accettare che alcuni per giustificare azioni in sé disumane dichiarino di conformare la loro condotta ai precetti di una religione? Se cosí fosse, infatti, si porrebbero due alternative: o quell'asserzione è palesemente infondata, e allora essa dovrebbe essere inequivocabilmente condannata dagli altri correligionari; oppure quell'asserzione è vera e allora ci sono buoni motivi per ritenere quella fede decisamente inaccettabile.
Nessuna guerra è santa essendo radicalmente inficiata da un’intrinseca ingiustizia. L’unico vero sconfitto di ogni guerra è l’uomo, l’unica vera vincitrice di ogni guerra è la guerra stessa e ciò è iniquo. Una guerra al piú può essere riconosciuta come evitabile o inevitabile, quindi purtroppo necessaria, ma non santa. Il Catechismo della Chiesa Cattolica al riguardo afferma:
«Tutti i cittadini e tutti i governanti sono tenuti ad adoperarsi per evitare le guerre. "Fintantoché esisterà il pericolo della guerra e non ci sarà un’autorità internazionale competente, munita di forze efficaci, una volta esaurite tutte le possibilità di un pacifico accomodamento, non si potrà negare ai governi il diritto di una legittima difesa" (GS 79)» (n. 2308).
«Si devono considerare con rigore le strette condizioni che giustificano una legittima difesa con la forza militare. Tale decisione, per la sua gravità, è sottomessa a rigorose condizioni di legittimità morale. Occorre contemporaneamente:
- Che il danno causato dall’aggressore alla nazione o alla comunità delle nazioni sia durevole, grave e certo.
- Che tutti gli altri mezzi per porvi fine si siano rivelati impraticabili o inefficaci.
- Che ci siano fondate condizioni di successo.
- Che il ricorso alle armi non provochi mali e disordini piú gravi del male da eliminare. Nella valutazione di questa condizione ha un grandissimo peso la potenza dei moderni mezzi di distruzione.
Questi sono gli elementi tradizionali elencati nella dottrina detta della "guerra giusta". La valutazione di tali condizioni di legittimità morale spetta al giudizio prudente di coloro che hanno la responsabilità del bene comune» (n. 2309).
Non deve trarre in inganno l'espressione "guerra giusta" usata spesso in passato nel contesto ecclesiale. L'aggettivo "giusta" è riferito non alla guerra in sé - cosa intrinsecamente cattiva - quanto alle sue cause che possono essere giuste o ingiuste o - se si preferisce - ragionevoli o irragionevoli. L'aggettivo "giusto" in questo caso non vuole essere tanto un qualificativo morale quanto un'indicazione di plausibilità delle sue cause: la causa può essere giusta, ma mai la guerra in sé con le sue dinamiche irrimediabilmente disumane e perciò anticristiane. Poste queste necessarie premesse prenderemo in considerazione l'atteggiamento profetico che Francesco di Assisi manifestò dinanzi al drammatico conflitto che già ai suoi tempi infuriava fra l'Occidente e il mondo islamico in pieno espansionismo, perché di espansionismo condotto manu militari si trattava e non certo di pacifica espansione.

P. Antonio Atzeni Cappellano Militare